venerdì 07 febbraio 2014
ore 21.00
Gianni Stoppelli
presenta
Anagramma via Artom
monologo in parole e boxe
Di e con e Gianni Stoppelli
Diretto da Gianni Stoppelli
Interpretato da Gianni Stoppelli
Contributi audiovisivi Piero Turra
Testo di Gianni Stoppelli con la collaborazione di Nicola Coppo
e la collaborazione di Nicola Castrovilli e Carmelo Seminara
(Mirafiori la città oltre il lingotto. Storie di via Artom e dintorni)
ingresso 10,00 Euro
Ingresso riservato ai soci ARCI
è consigliata la prenotazione a info@spaziokitchen.it oppure con un sms al 3355625286
La prenotazione è valida fino alle ore 20.50
Nota dell’autore
Sono cresciuto in Via Artom. A quindici anni sono stato arrestato con l’ imputazione di omicidio volontario a scopo di rapina. Dopo due anni e quattro mesi sono stato condannato in primo grado a ventotto anni. Il pubblico ministero aveva chiesto l’ergastolo.
Non avevo parole e gesti per difendermi. Perché mi sentivo colpevole. Perché non sapevo esprimermi. Perché sentivo che nessuno sarebbe stato disposto ad ascoltarmi. Ad ascoltare un assassino. Da quando sono stato in grado di analizzare e interpretare la realtà, anche attraverso il teatro, ho voluto dare voce a quel ragazzo. Mi sono sentito addosso il ruolo e il compito del sopravvissuto, quindi dovevo narrare. La verità di un gesto non volontario. La verità di quei ragazzi morti in seguito per overdose di eroina, di aids, oppure ammazzati, suicidi, o vaganti ancora nelle galere del nostro paese.
Ho voluto narrare perché rimanga e sia resa memoria ai caduti. Tutti. I palazzi di via Artom possono anche essere abbattuti, ma il ricordo resta nei corpi di tutti coloro che vivono.
Come nel mio. Durante il mio racconto mi alleno alla boxe, così riesco ad espormi… i muscoli e disciplina riescono a fare uscire le parole dal corpo. Le storie di quelli più fragili. Tutto sommato, su 4000 abitanti, quei ragazzi, rappresentavano una minima parte. Così anche, vorrei fosse chiaro che non eravamo sempre e solo dediti a commettere reati, ma che c’era in ognuno di quei ragazzi una profonda sensibilità, in alcuni del talento, e in tutti la voglia di vivere.
Usando le parole della dott.ssa Marina Bertoncin, “…Mi sono concesso l’opportunità di riflettere sui modi attraverso i quali un territorio diventa attore: nello specifico sulle periferie urbane e sulla genesi “territoriale” dell’emarginazione, ovvero sui meccanismi della territorialità che favoriscono esiti sociali di esclusione e ghettizzazione”.
Una persona una volta mi disse:“Tu sei prigioniero del tuo incubo e hai sempre bisogno di celebrare l’omelia della tua tragedia per continuare a vivere… spettacolarizzando un incubo.” Anch’io in alcuni momenti ho pensato che mettere in scena il proprio omicidio, rappresentasse una bestemmia e un insulto per la vittima. Però il teatro non è un reality, non è fiction. Il teatro è un immersione. E’ un luogo che si raggiunge solo con l’anima, dove raccontare un incubo è già la cura.
Kantor intendeva l’arte come ricerca lucida e consapevole del rischio.
Via Emanuele Artom.
Ha un anagramma:
E là vi è umana morte.
Ma ne ha anche un altro:
L’arte muove e anima.
Questo è l’unico rischio accettabile.
Non so cos’altro aggiungere.